Dopo di noi pochi sprazzi, ma non si sentivano più tutti quei bambini vociare, tirare quei calci ad un pallone, azzuffarsi per delle stupidate, salvo fare la pace all’arrivo di un genitore, che altrimenti si doveva tornare a casa.
Dopo di noi ci sono stati i videogiochi. Anzi, i videogiochi li avevamo noi, dopo sono arrivati i “videogames”. Per noi erano un riempitivo, qualcosa che avevi per passare un pomeriggio nuvoloso in casa da solo, ma non sostituivano la “compagnia”, non valevano un Dino-Rider o un G.I. Joe.

Fa effetto rendersi conto di essere un esponente degli ultimi che si sono sbucciati sui marciapiedi perché passavano il pomeriggio a fare le sgommate in bici (“e vediamo chi frena dopo!”), degli ultimi che facevano la porta “con la tua felpa e il mio giubbotto”, e la traversa si spostava a seconda di chi faceva gol: “era troppo alta la palla!” “non è vero, era sotto!”.
Com’era bella la vita prima dei cellulari, di internet: ci si dava appuntamento un giorno per l’altro, una settimana per l’altra, e a quell’ora si doveva essere lì, senza messaggi, senza chiamate di mezzo.
Che tempi quando ci si ritrovava in troppi nello stesso spiazzo e si faceva a gomitate (inevitabilmente imitando i Cavalieri dello Zodiaco) per conquistarsi il campo per giocare a pallone (inevitabilmente imitando Holly, Benji e Mark Lenders, ottenendo solo ginocchia sbucciate).
Che bello quando, se era ora di rincasare ed una squadra vinceva 8-0, c’era comunque tempo per “la bella”.
Oggi guardo i cortili e li vedo desolatamente vuoti. Guardo i campetti e ci vedo solo mamme stressate coi passeggini.
Oggi non c’è più gran parte di quello che per tante generazioni era il modo più bello di passare i pomeriggi: divertirsi all’aperto con gli amici.
Quelli che una volta erano dei riempitivi sono diventati l’attrazione principale, i videogiochi.
Quello che una volta era una leggenda metropolitana (un telefono senza filo?) è un oggetto indispensabile. Non serve più aspettare la tale ora nel tal posto per sapere se il tuo amico ci sarà: basta un messaggio.
Oggi tendo l’orecchio e dai cortili, dai campetti non giunge suono. Nessun grido per un gol in rovesciata, che la palla era fuori, ma il gesto valeva il gol. Nessun pianto per un ginocchio “sfrisato”, nessuna battaglia di gavettoni, nessuna sgommata in bici.
Tutti rintanati in casa, guai ad uscire.
Non sapevo, allora, che noi saremmo stati gli ultimi. Ma ce la siamo goduta lo stesso, e alla grande.
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